Un artista in formazione, una mente con molte idee fresche ed entusiaste. Vale la pena di seguirlo, dal suo primo lavoro in trio, al prossimo da solista. In mezzo, a breve, una big band tutta da ascoltare! Cristiano Stocchetti.
Sound Contest: Come nasce “Travels” e il gruppo con cui hai realizzato questo tuo primo lavoro discografico?
C. Stocchetti: Marco Galiero, Emiliano Barrella ed io siamo allievi di Valerio Silvestro. Ci sono stati lunghi periodi in cui studiavamo e suonavamo assieme tutti i giorni. Ora avviene, purtroppo, meno spesso. Ma, al momento di scegliere i musicisti, e’ stato naturale pensare a loro.
Il progetto discografico di “Travels” nasce dalla necessita’ di mettere un punto fermo nella mia crescita musicale. Un modo per fotografare quello che ho maturato per ripartire.
S.C.: Dopo l’uscita di “Travels”, cosa ti aspetti dal pubblico e dalla critica?
C.S.: Mi piacerebbe portare il progetto in giro e farlo conoscere. Avere un CD puo’ aprire piu’ strade. Ed e’ sicuramente un buon modo per arrivare ad un pubblico piu’ ampio. Questo darebbe anche la possibilita’ di far affiatare ancora di piu’ il gruppo e aprire nuove possibilita’ musicali per i progetti futuri.
S.C.: Il concetto in divenire che caratterizza un viaggio e’ un po’ come quello che caratterizza un percorso di vita. Il tuo passaggio da Napoli a Lucca che evoluzioni ha comportato?
C.S.: Beh, lasciare la propria citta’ per un luogo dove in cui non si conosce nessuno e’ un pò come rinascere. Come ripartire scommettendo su di se’ e sulle proprie forze. Quest’esperienza si riflette costantemente nel mio modo di suonare e di affrontare la musica. Non a caso e’ stato a Lucca che ho maturato l’idea di un primo disco.
S.C.: L’ambiente jazzistico italiano lamenta un certo disinteresse per questa musica da parte di un pubblico piu’ ampio. Ti trovi d’accordo con questa affermazione? Lucca puo’ definirsi “alternativa” in questo senso?
C.S.: Sicuramente il jazz e’ ancora una musica di nicchia. Il motivo per cui non esiste un pubblico piu’ vasto e’ da legare a questioni piu’ generali: l’istruzione musicale nelle scuole e’ molto carente; in televisione e alla radio passa pochissima musica jazz. Ma parte della responsabilita’ e’ anche da attribuire ai musicisti, che troppo spesso sono costretti a suonare in condizioni pessime e per misere paghe e per questo, spesso, si sentono legittimati a non dare il massimo. Quello che voglio dire e’ che noi dovremmo essere capaci di attirare piu’ gente!
S.C.: Il Conservatorio di Napoli, S.Pietro a Majella, e’ noto per essere una scuola prestigiosa e competitiva, anche se ancorata a dinamiche scolastiche e comportamentali un po’ retro’. Cosa tieni dentro dell’esperienza umana e di studio dei tuoi anni di “allievo interno” e cosa scarteresti?
C.S.: Purtroppo non ho un buon ricordo della mia esperienza in Conservatorio. Credo che l’insegnamento della musica sia stato completamente frainteso. Per fortuna, ora, sembra che le cose stiano cambiando: molti Conservatori si stanno rinnovando, aprendosi a nuove forme di musica.
S.C.: Sax tenore. Primo e unico amore?
C.S.: Sicuramente il primo in questo momento: sono innamorato del sax tenore. In passato ho suonato altri strumenti: il primissimo strumento e’ stato la batteria, quando avevo circa sei anni. Verso i 15, ho iniziato a studiare basso. Solo a 18 anni ho iniziato a suonare il sax e parallelamente il clarinetto per gli studi classici. Inoltre, con gli anni, ho imparato a mettere le mani sul piano. Ma lo strumento che in questo momento mi appaga e mi rispecchia di piu’ e’ il sax. Anzi… il sax tenore.
S.C.: Durante gli anni di studio ti sei appassionato alla grande tradizione del sax tenore jazz degli anni ’50 e ’60, approfondendo lo stile di colonne come Harold Land, Hank Mobley, Stanley Turrentine, Tina Brooks, Gene Ammons, Joe Henderson, Clifford Jordan, Johnny Griffin, George Coleman. Cosa ti ha stregato di questo jazz?
C.S.: Ho avuto la fortuna di ascoltare jazz sin da piccolo: avevo circa sei anni quando un amico di famiglia mi regalo’ una cassetta audio con su registrato “Kind of Blue” di Davis. Ne rimasi folgorato. Per me la musica e’ il jazz!
Quello che mi affascina dei grandi musicisti che hai nominato e’ l’ onesta’ e l’umilta’ con la quale si raccontano quando suonano. Poi ci sono i giganti come Coltrane, Davis, Bill Evans o Parker… ma loro non si limitavano a suonare: loro immaginavano mondi! E’ questo che mi affascina del jazz (e della musica in generale, quando e’ capace di farlo): la capacita’ che ha di raccontare storie e mondi diversi.
S.C.: Dopo il Conservatorio, hai perfezionato la tua formazione in seminari con Garrison Fewell, Mike Abene, Steve Grossman, Paul Jeffrey, Dave Liebman e Jimmy Owens. Come ti hanno trascinato fuori da una mentalita’ scolastica e radicata in una realta’ locale tanto particolarizzata?
C.S.: Hai fatto nomi di musicisti che praticamente sono dei pezzi di storia del jazz. Quello che piu’ mi ha colpito e’ che per loro la musica, il jazz, non e’ tanto questione di note o scale, ma di cosa hai da raccontare: chi sei, cosa mi porti, cosa mi regali quando suoni. Cosa mi doni. Non le scale, gli accordi, le sostituzioni… Oggi la didattica della musica si e’ specializzata molto nell’insegnamento della musica e dell’improvvisazione, ma il rischio e’ proprio quello di perdere l’anima di quello che si fa.
S.C.: In particolare il seminario con Michael Abene sulla composizione e arrangiamento per Big Band, denota un’inclinazione interessante in un momento in cui fioccano formazioni in trio o quartetto arrivando al massimo al quintetto. In che termini intendi rivisitare la scrittura per Big Band?
C.S.: La scrittura per Big Band mi attrae molto perche’ mi da’ la possibilita’ di pensare la musica nella sua totalita’, di immaginare ogni particolare. E’ molto diverso dal lavoro con piccole formazioni, dove l’interplay e’ al massimo e ogni musicista collabora alla musica che si suona.
S.C.: Da dove viene l’attenzione alle grandi formazioni e a chi ti ispireresti per il tuo primo lavoro?
C.S.: L’amore per le grandi formazioni viene dal fatto che la Big Band ha un suono fantastico: e’ sempre una festa! Ho avuto la fortuna di suonare spesso in big band ed e’ una sensazione meravigliosa: il suono ti avvolge completamente, in un modo che non e’ possibile con le piccole formazioni.
Per quanto riguarda le influenze, in questo momento sono molto attratto dalla scrittura di Bob Mintzer, che trovo contemporaneamente molto legato alla tradizione, ma anche molto innovativo. Ci sono anche altri musicisti che mi hanno colpito molto: c’e’ un meraviglioso disco di Kenny Wheeler con orchestra che ho praticamente divorato. Trovo molto interessante anche il lavoro di Dave Holland con l’orchestra. Tecniche compositive molto originali, che spesso si ricollegano anche al mondo della composizione classica e accademica. Ultimamente quest’aspetto mi interessa molto. Sto leggendo alcune partiture di musica classica con particolare attenzione alla forma e alla strumentazione, ma ancora non so dove mi portera’ questo lavoro.
S.C.: Per il prossimo lavoro dobbiamo aspettarci un disco in trio o una Big Band rivoluzionaria?
C.S.: Ultimamente sto riprendendo a scrivere molto per Big Band, ma sono partiture, diciamo cosi’, di studio. Niente di definitivo.
Sto invece lavorando ad un progetto discografico per solo sax. Sono brani originali con molte sovraincisioni. Molto probabilmente, se trovero’ il prodotto interessante, sara’ il mio prossimo disco.
photo by Alessandra Mandozzi