TOMMASO TALARICO | La verità di un cantautore

Decisamente un disco classico, pulito, un lavoro di bella canzone d’autore. Niente di più, ma soprattutto niente di meno, che è già un grandissimo traguardo oggi che siamo alla continua ricerca dell’innovazione finendo per deformare anche i concetti base in nome di un ardito profilo artistico. Tommaso Talarico invece cerca il linguaggio onesto per raccontare la verità in questo disco dal titolo corposo e sentito: “Viandanti. Canzoni da un tempo distante”. Talarico parla di verità appunto, ci regala una canzone dalle forme trasparenti ed oneste che si diverte a vestirsi di rock o di silenzi romantici, tra una ballata come “In nome di Dio” e un quadro di Provenza e pastelli come nella splendida “Eolie”. L’amore, quindi, ma anche la vita perché, ci dirà lui, vestirsi di verità è una questione di etica e di dovere per un artista che scende nella pubblica piazza. E allora non crede alle favole o quantomeno a queste demanda solo il compito di un rifugio spirituale. E poi gioca a ping pong con sonagli e spensieratezza in “Alla facoltà di lettere e filosofia”, si fa noir di jazz confinato che fa sentire la mancanza di una sordina in “La schiuma dei giorni”. Tommaso Talarico è una bella voce, una bella penna e un’anima sensibile di questa nostra canzone d’autore. Tutto un altro mondo, quel mondo là, che resta lontano anni luce dalle trasgressioni elettroniche di questo futuro.

 

 

Quanta ipocrisia hai distrutto per tornare alla verità? Ecco la prima impressione pensando al retrogusto di molte canzoni di questo tuo disco d’esordio. Non è così?

Credo che ogni artista abbia il dovere di dire la verità. Naturalmente so benissimo che la verità è una questione molto soggettiva, quello che intendo è che abbiamo il dovere della sincerità. Una canzone funziona se si sente che è “vera”, no? Che colui che l’ha scritta non ci sta truffando in qualche modo, che non ci sta dicendo quello che vogliamo sentirci dire. Non è facile, davvero. Però non ho mai scritto una canzone senza “ascoltarmi” in profondità. Credo di essere parte integrante dei miei pezzi, anche quando racconto vicende altrui.

 

Essere viandanti è una condizione di vita? In qualche modo è una parola che rappresenta molto il concetto di arte e di artista. L’incontro con gli uomini e con la vita. Viandanti anche di emozioni. 

In realtà siamo tutti viandanti. La differenza è che un artista (parola grossa, tendo a considerarmi più un artigiano della canzone) si sofferma sulla relazione tra se stesso e il mondo, quindi tra se stesso e gli altri. E’ per questo che la dimensione del viaggio, che è fatta di incontri con luoghi nuovi e nuove persone, viene trasfigurata per poter scrivere una canzone o magari dipingere un quadro o scrivere un romanzo. Nel disco ho inserito la splendida poesia di Machado, “Caminante “, che dice tutto. Pensiamo poi alla figura di Ulisse. E’ uno degli archetipi della condizione umana, l’uomo in balia degli eventi, dentro a un viaggio avventuroso e necessario, in fondo, per tornare davvero a casa.

 

E per te che le parole sono importanti allora ti dico: pellegrini? Siamo o non siamo pellegrini in questa vita?

Preferisco la parola Viandante. Pellegrino mi riporta di più a chi si muove spinto dalla fede, mentre un viandante, per come la vedo io, parte senza avere in tasca verità assolute. Proprio come dice Machado: “Viandante, sono le tue orme il cammino e nulla più. Viandante, non esiste sentiero: si fa strada nell’andare“. Il vero Viandante non approda a convinzioni definitive. E’ nel viaggio il senso dell’esistenza.

 

Cantautore di stile classico, di ballad ma anche di pitture romantiche. Eppure, c’è una leggerissima vena rock dentro qualche cassetto di questo disco… sbaglio?

Assolutamente sì. Il rock fa parte della mia formazione. Nei miei pezzi si sente di più la forma folk/rock americana, Dylan, Neil Young e Springsteen. Ho amato molto anche i Pink Floyd e gli U2, da “War” a “Zooropa”. In “Storia di Lillo”, nel ritornello, Giuseppe Scarpato suona la chitarra in un modo che ricorda quello di The Edge. Non so in quanti se ne siano accorti, ma è così. Quando ho scritto quel pezzo pensavo proprio a qualcosa del genere.

Canzoni che hai scritto anche tempo e tempo fa. Alcune dunque come il vino e il formaggio hanno respirato e atteso il tempo buono. È stata una tua filosofia decisa dall’inizio oppure ti sei ritrovato tra le mani il “coraggio” di pubblicare un disco? 

In realtà non è stata una decisione presa fin dall’inizio. Ho sempre scritto le canzoni per necessità, senza pensare alla possibilità di fare un disco o meno. Certamente mi sarebbe piaciuto esordire prima, ma per molto tempo mi sono allontanato dal mondo della musica. Non sentivo più stimoli e, devo dire, nemmeno mi mancava troppo. Ho fatto altre cose. A un certo punto mi è tornata la voglia, tutto qui. Adesso ho una maggiore consapevolezza delle mie possibilità, dei miei limiti e di ciò che voglio. E’ una bella sensazione.

 

Per chiudere vorrei parlare di citazioni e di ispirazioni. Direi che, da più parti, hai attinto a tanti momenti della canzone d’autore italiana classica. Almeno questo mi arriva. Ci dai una coordinata più precisa e, sicuramente, una più autorevole indicazione in merito?

Hai ragione, le influenze in questo disco sono evidenti, ed è anche giusto che sia così. C’è tutto il mondo della canzone d’autore che ho amato di più, da De Gregori a Fossati. Esiste però un altro mondo, che sento mio quanto quello dei cantautori, che in questo lavoro non è percepibile, ma che sarà più evidente probabilmente nelle canzoni che verranno. Sono un ingegnere, e so che una casa si costruisce dalle fondamenta. Sono partito da lì.