“Multiforme ingegno, Attila Zoller e il jazz”, recentemente pubblicato da Demian Edizioni, è l’omaggio di Stefano Orlando Puracchio e Andrea Parente al chitarrista ungherese famoso per essere stato l’unico maestro di Pat Metheny.
Attila Zoller, che ha trascorso la maggior parte della sua vita nel Vermont, è stato valente chitarrista, insuperabile insegnante, ricercato turnista, oltre ad aver dato una significativa spinta all’evoluzione tecnica del suo strumento. Alla fine della lettura di questo splendido volume si avrà una nuova certezza: Attila Zoller, uomo dal multiforme ingegno, è stato ‘anche’ il maestro di Pat Metheny.
Un libro di interviste, ma non solo; un saggio storico, ma non solo; un libro di analisi musicale, ma non solo. Una struttura “multiforme” che consente una lettura in orizzontale e in verticale, così da poter scoprire Attila Zoller da prospettive sempre diverse. Un libro “dinamico”, sempre in movimento, come la vita dei protagonisti.
Com’è nata l’idea di raccontare la vita e l’arte di Attila Zoller e perché avete optato per una struttura così deliziosamente poco lineare?
Stefano: Dopo aver scritto il libro su Gábor Szabó, era giusto scrivere qualcosa sull’altro chitarrista ungherese jazz famoso. È stata una scelta naturale. Sulla struttura: non c’è stata una vera e propria pianificazione. Il testo “ci suonava” bene così!
Andrea: Interessante raccontare anche l’incontro avvenuto tra me e Stefano nell’aprile del 2022 grazie alla preziosa amicizia in comune con Donato Zoppo. In quel periodo lavoravo per Jazzit e Donato, con il suo ufficio stampa Synpress44, mi aggiornava su tutte le uscite musicali ed editoriali; tra queste, c’era il libro di Stefano su Gábor Szabó, appena uscito. Mi sono interessato fin da subito, e mi sono ritrovato a settembre 2022 a Budapest come unico giornalista italiano alla presentazione di “Gábor Szabó. Il jazzista dimenticato”. Da quella bella esperienza, abbiamo deciso di continuare a collaborare, anche, sul versante Attila Zoller. Il tutto è avvenuto nel modo più naturale possibile…
Zoller avrebbe potuto tranquillamente avere un altro tipo di carriera, perché dotato di uno stile unico e innovativo, un ponte tra swing e avanguardia. Ma predilesse la carriera di turnista. E’ vera la prima affermazione o proprio la carriera di turnista, fatta di incontri con artisti tanto diversi, contribuì a sviluppare il suo stile così personale?
Stefano: Zoller aveva tutte le capacità per essere un chitarrista mainstream di successo. Tuttavia, ha scelto di condurre una vita normale, ordinaria se vogliamo, tenendosi ben lontano dagli onori – ma anche dai rischi – del successo. Forse è proprio per questo che bisognerebbe ammirarlo: ad uno “scatto di carriera” lui ha preferito uno “scatto di tranquillità”.
Andrea: È proprio questa capacità innata di essere un chitarrista “normale”, che ha portato Zoller a ritagliarsi non solo un ruolo importante nel panorama jazzistico europeo, ma anche un alto grado di rispetto nell’ambiente che lo circondava, cosa che non è affatto scontata. Da musicista voglio aggiungere anche un altro aspetto, per me fondamentale: essere un solista virtuoso è, indubbiamente, molto appariscente e può favorire agevolmente il famoso “scatto di carriera”; essere, invece, un turnista affidabile è molto più impegnativo e ti costringe, nella maggior parte delle volte, a rimanere dietro le quinte, favorendo l’espressività del solista che ti ha ingaggiato. Vuoi mettere la soddisfazione nell’essere chiamato per la tua affidabilità, piuttosto che per la tua appariscenza?
Quali gli incontri più significativi per la sua musica? Comincio io: Ornette Coleman?
Stefano: Così come Szabó ha avuto la fortuna di trovare Gary McFarland come compagno di stanza, Zoller si è ritrovato a condividere degli spazi in comune con Ornette Coleman. I casi della vita: sebbene Zoller non sia diventato un profeta del free jazz ha comunque attinto dal free. E, questo, sicuramente grazie alla frequentazione con Coleman. Poi, per gli incontri e le collaborazioni importanti, da cosa nasce cosa.
Grazie alla collaborazione di Zoller coi fratelli Mangelsdorff, ha avuto poi modo di lavorare con Tony Scott. Grazie alla collaborazione con Scott, Zoller è riuscito agilmente ad arrivare a Benny Goodman, eccetera, eccetera. Se è riuscito ad arrivare ai grandi è non solo perché era bravo (quindi richiesto), ma perché è anche riuscito ad tessere una valida rete di relazioni personali e professionali.
Andrea: È interessante notare, anche, un altro incontro “al contrario”, ovvero quello di Pat Metheny con il “maestro” Attila Zoller: “una persona importantissima nella mia vita, l’unico vero maestro di chitarra che abbia mai avuto” (cit.). Inoltre, a proposito di incontri importanti, nel libro è presente anche un’intervista al guru del contrabbasso jazz Ron Carter, che tesse le lodi di Zoller. Tutto questo a dimostrazione che sono in tanti ad aver avuto una bellissima e significativa esperienza con il chitarrista magiaro.
Poi, in fondo al libro, si prova a mettere accanto Attila Zoller e Gàbor Szabò (altro musicista a voi noto per studi precedenti), due chitarristi, ungheresi, americani di adozione. Ma poi?
Stefano: Era giusto fare un confronto tra i due. Un po’ per riprendere le fila del discorso iniziato con il libro su Szabó, un po’ per ricordare che Zoller e Szabó sono state due eccellenze ungheresi. Eccellenze che avevano punti di vista differenti ma ugualmente validi.
E poi c’è il rapporto umano e professionale tra Zoller e Jim Hall. Cosa mi potete raccontare di questo?
Stefano: Hall ebbe modo di ascoltare Zoller e gli offrì un corso di perfezionamento alla Lennox School. Fu in quella occasione che Zoller si ritrovò ad avere Coleman come compagno di stanza. In seguito, Hall e Zoller hanno avuto modo di collaborare in modo proficuo.
Ma Zoller è stato anche un innovatore tecnologico. Tanto devono i chitarristi moderni alle sue “invenzioni”. Quanto questo aspetto è stato importante nella sua carriera?
Stefano: Zoller ha considerato la musica a 360 gradi. Come musicista, come compositore, come educatore e come inventore. Per quanto concerne l’ultimo punto, note sono le sue ricerche per le corde (Ron Carter usa ancora le corde che ha sviluppato con lui) e per i pickup. Che sono ancora in commercio.
Andrea: C’è uno stretto legame tra il Zoller “turnista” e il Zoller “inventore”: il mettere a disposizione il proprio talento per agevolare l’altro, che sia un musicista che abbia bisogno del tuo apporto jazzistico, oppure di un musicista che abbia bisogno di esprimersi al meglio tramite una chitarra, un pickup o un set di corde. Questo fa di Zoller un musicista dal “multiforme ingegno”…
Tornando alle interviste, ho apprezzato in particolare la vostra capacità di intercettare le persone più importanti per Zoller nei diversi momenti della sua vita.
Stefano: Abbiamo scelto di parlare con tutte persone che hanno avuto un rapporto stretto, personale e/o professionale, con lui. Le testimonianze raccolte vi hanno fornito un quadro umano straordinario.
Andrea: Questo è un libro che fa emergere l’aspetto che più ci ha colpito di Attila Zoller, ovvero quello “umano”. Ed era più che giusto, nei suoi confronti, che a parlare fossero proprio le persone che hanno condiviso con lui importanti traguardi affettivi e lavorativi.
Ci sono aneddoti o episodi particolari accaduti durante la ricerca e che vi hanno colpito particolarmente?
Stefano: Ecco, proprio tramite le interviste abbiamo scoperto che Zoller non era solo un musicista straordinario ma pure un grande uomo. Un compagnone, un gaudente, uno sportivo insaziabile, un amante della cucina. Paradossalmente, il lato umano di Zoller vince anche rispetto alla sua alta preparazione tecnica.
In conclusione, qual è l’eredità artistica e culturale di Zoller nel jazz moderno?
Stefano: La lezione di Zoller è che bisogna migliorare per se stessi e non per fare vedere agli altri di essere bravi. E, soprattutto, che la ricerca della felicità non coincide con il successo.
Andrea: Attila Zoller è uno di quei musicisti a cui si dovrebbero ispirare tutti i jazzisti moderni. Sono sicuro che una sua approfondita conoscenza, potrebbe ispirare – sia musicalmente, che umanamente – i giovani studenti che frequentano i Conservatori, sempre più spesso in difficoltà nel trovare un proprio percorso artistico. Stiamo lavorando per far coincidere queste due realtà, sperando che la “missione Zoller” non si limiti a scorrere solo tra le pagine di un libro, ma che possa maturare anche nei comportamenti della futura generazione del jazz, sempre più bisognosa di validi e concreti riferimenti.