A diciassette anni dalla pubblicazione di “The Miseducation of Lauryn Hill” – album da lei interamente prodotto, scritto e arrangiato, tra i migliori di ogni tempo – appare ai miei occhi. Sale sul palco con un elegante cappello che toglierà dopo un po’, colpa del caldo, per reindossarlo prima di andar via, come ha scritto qualcuno: da vera diva. Una diva fin troppo forte per darsi a contenuti inutili, che entra, si siede, prende la chitarra e inizia a cantare, direttamente. Non si racconta, sembra sfuggire alle parole, porta musica senza mezzi termini. L’hanno definita pioniera di un nuovo genere, “new soul”, e chi conosce la sua voce come quella di una vecchia amica – e che sussulta incredulo ad ascoltarla dal vivo – non può sbagliarsi a dire che il suo soul è antico e profondo, e che nessun’altro se non lei poteva essere interprete di ben sei brani della sua madre spirituale in “Nina revisited”, cd tributo a Nina Simone uscito da poco.
Inizia il concerto nervosa, sembra non sentire bene la propria voce dalle spie, è superconcentrata e tesa, mentre la band, il deejay e le coriste la seguono, evidentemente abituati al suo modus operandi, che richiede una disinvoltura da jazzisti, e interpretano ogni gesto, cenno della testa, nel modo migliore. Lei propriamente dirige, sta dietro a ogni suono, ordina tutto, lascia sapientemente fluire gli assoli al momento giusto, isola la voce che vuole in quel momento, poi dilata enormemente i tempi di ogni pezzo, costruisce lentamente la canzone, a volte rendendola irriconoscibile all’attacco. Decidendo (sembra essere molto improvvisato) quante volte ripetere il ritornello, dove inserire gli stacchi di batteria o i silenzi sul suo canto e il suo rap. Perché proprio da quando, con “Consumerism”, brano del 2013, comincia a rappare, tutto cambia. Abbandona la chitarra, si alza in piedi, inizia anche a ballare – su un paio di tacchi altissimi!, riscalda tutto, si riscalda anche lei, sembra sciogliersi, finalmente sorride e appare rilassata ma sempre energica al massimo, ringrazia Roma e il pubblico, che delira appena ascolta i brani dei Fugees, di quando coi loro pezzi scalavano le classifiche mondiali.
Lei, è proprio lei, Lauryn Hill, sta cantando “Ready or not”, lo sta facendo ora, e la sua voce, così in ripresa, dopo tanti anni di stanchezza, più vissuta e consapevole, brucia intensa l’Auditorium Parco della Musica. Mi chiedo spesso cosa possa significare per un’artista così grande trovarsi a cantare gli stessi pezzi per tanti anni, dopo tutto questo tempo e questo successo, probabilmente con la noia per certe melodie ma ancora suscitando emozioni così forti. Forse è appunto solo l’iterazione, forse è semplice lavoro, forse è la sua vita, con la sua parte d’inafferrabilità, ma il privilegio di goderne è una vera riconnessione con le grandi forze dell’universo.
Da sempre criticata, in quanto donna che si è presa il proprio tempo per vivere una vita autentica, lontana dallo show business, in quanto donna di successo che non ha ad ogni costo cavalcato l’onda della potenza commerciale, ma ha saputo staccare la spina quando ce n’era bisogno, senza frenesia, in quanto rapper di una crew che ha poi fatto delle scelte musicali autonome, come succede a chiunque sia così famoso e venda milioni di dischi, Lauryn Hill: anche solo per la sua propria forza potrebbe vendere biglietti per un tour oltreoceano ad un pubblico pagante. Dopo aver rifiutato di cantare nello stato di Israele, boicottandone le politiche economiche e il governo, porta sui palchi europei uno schiaffo di realtà, di “miseducation of the negro”, di eredità black panther, di cultura nera, vera. Di hip-hop. Lei lo vive. Ascoltare live il suo flow lascia intontiti, esterrefatti. Poi canta Bob Marley, esporta messaggi inequivocabili, e tutto si riconduce alla sola domanda fondamentale: could you be loved? E inizi a comprendere la sua idea di festa, concerto spaziale che dura due ore. Ecco, le forze dell’universo, i Fugees, Fu-Gee-La, Killing me softly, Bob Marley, che in Jammin’ si fonde allo Stevie Wonder di Master Blaster, Ex factor, la troppo emozionante Lost ones, I gotta find peace of mind, Feeling good, Nina Simone, To Zion (mamma Lauryn!), The final hour. Tutto però dalla sua bocca acquista un sapore inconfondibile, vibra con lo spessore granitico della Storia. Dentro e oltre la musica.
Lauryn Hill, la diseducata, direi la maleducata con troppa consciousness, consapevolezza, superfly struggente ed arrabbiata, termina il concerto con “Doo Woop: that thing”, che non poteva mica mancare. Nessuno l’avrebbe voluto mai far finire, questo paradiso romano del 13 luglio. Ma lei autografa una copia di “Miseducation” in vinile, scioglie tutti con un sorriso e se ne va.
Auditorium Parco della Musica, Roma
13 luglio 2015